Nell’immaginario collettivo è una terra di grande spiritualità, terra dello yoga e della meditazione, terra dell’Ayurveda e dei cibi speziati, terra di divinità colorate e misteriose che si sono fatte strada anche nelle nostre vite, diventando simbolo di benessere e rinascita interiore.
È la terra del saluto con le mani giunte in segno di devozione e del Namasté, che quando lo senti dire ti viene normale pensare che quelle che lo pronunciano sono senz’altro delle belle persone.
Ma poi decidi di fare un viaggio in quella terra esotica e lontana e l’India d’improvviso non è più icona di un oriente spirituale, ma diventa reale, in un modo che anche con tanto impegno, mai avresti potuto prevedere.
Il mio incontro con l’India del nord è avvenuto in un aprile infuocato da 40 gradi continui. Arrivati a Delhi, ci siamo spostati con un volo interno per andare a visitare Varanasi, Benares, come veniva chiamata in passato.
Alloggiamo nel palazzo più antico dei Ghats, che si affaccia direttamente sul fiume Gange, il Brijrama. È come tornare indietro nel tempo, è come entrare davvero nella storia di questo paese, nella sua parte più intima e sacra. Il palazzo sembra uscito direttamente da una delle storie di mille e una notte. Ti aspetti quasi che da un istante all’altro, un bramino di qualche secolo fa, esca da una delle stanze per andare a fare le sue preghiere su uno dei terrazzi, al suono del flauto suonato nel cortile interno e che inebria ogni singolo istante.
Il tempo è sospeso in una magica sconosciuta dimensione qui a Varanasi, non solo al Brijrama, ma ovunque. Con una piccola imbarcazione, che sembra galleggiare per miracolo, facciamo un lento giro dei Ghats.
È l’alba e la luce del sole che lentamente colora l’acqua del Gange, fa da cornice alla vita che si dispiega sulle sue sponde.
I Ghats sono gli scalini che in questa parte della riva scendono fino all’acqua, e nel nostro lento incedere, vediamo palazzi bellissimi ed altri fatiscenti, bambini che fanno yoga, bramini che pregano, persone che lavano i panni nel fiume, altre che fanno il bagno per purificarsi, altre ancora solo per lavarsi.
Perché per loro Ganga G, il grande Gange, è una madre, è una divinità, è la vita stessa.
I Ghats sono gli scalini che in questa parte della riva scendono fino all’acqua, e nel nostro lento incedere, vediamo palazzi bellissimi ed altri fatiscenti, bambini che fanno yoga, bramini che pregano, persone che lavano i panni nel fiume, altre che fanno il bagno per purificarsi, altre ancora solo per lavarsi.
Perché per loro Ganga G, il grande Gange, è una madre, è una divinità, è la vita stessa.
Le giornate qui sono scandite dal rapporto con il fiume, che da sempre costringe a fluire con i suoi tempi e con la natura.
Il Gange è vita, ma è anche morte.
E Varanasi rappresenta proprio la fine di ogni cosa.
Qui, vengono bruciati i cadaveri in pire poste in punti diversi dei Ghats. Così come le ceneri dei cari defunti, vengono donate al Gange che segna proprio il viaggio, il passaggio alla morte, ma anche alla nascita di qualcosa di completamente nuovo. E così arrivano pellegrini da tutta l’india e da tutto il mondo, perché la tradizione vuole, che quando l’anima arriva a Varanasi, può finalmente uscire dalla ruota del karma, smettere quindi di reincarnarsi, e unirsi finalmente al Divino, in una dimensione del tutto nuova.
Qui l’energia è così potente che stento quasi a restare sveglia, mi sento in uno stato ipnotico e non ho bisogno di chiedermi perché questo luogo venga considerato così sacro, le lacrime che hanno iniziato a scorrere sul mio viso appena arrivata, non hanno lasciato spazio al dubbio, e mi hanno inondato il cuore di commozione. E pace.
Visitiamo anche il luogo sacro ai buddisti, Sarnath, dove Buddha donò per la prima volta i suoi precetti nel 500 a.C. Qui in India ovunque si respira la storia dell’umanità.
Difficile lasciare Varanasi, ma il viaggio è ancora lungo, il nostro programma è quello di visitare il triangolo D'oro, Jaipur, Agra e Delhi. Torniamo con il volo a Delhi, per poi proseguire fino a Jaipur con il bus, per visitare la bellissima fortezza di Amber.
Una fortezza posta in collina, protetta da una muraglia percorribile a piedi oppure in groppa all’elefante, con le voci di venditori che ti seguono per tutto il tragitto cercando di concludere qualche buon affare. È maestoso il modo in cui l’opera dell’uomo riesca talvolta ad integrarsi così magistralmente con l’opera di madre natura, come in un dipinto. E qui, questa fortezza, sembra da sempre far parte della collina, come se ne fosse un'estensione, come le perle di una collana che gentilmente si adagiano intorno al collo di una signora.
Visitiamo poi il City Palace, casa della famiglia reale e l’Osservatorio astronomico di Jantar Mantar.
Ma in India non manca proprio nulla, per qualunque curiosità o voglia di avventura. Ci spostiamo quindi a Ranthambore per un safari alla scoperta di tigri e dell’affascinante selvaggio scenario di un'India che non ti aspetti.
Dopo altre ore di bus arriviamo ad Agra, ma soprattutto al cospetto di una delle sette meraviglie del mondo, il Taj Mahal. Arriviamo nelle prime ore del giorno, ci sono pochi turisti in giro per il gran calore, e dopo poca coda per il controllo delle nostre borse, entriamo nel giardino antistante il palazzo.
Ed eccolo lì, imponente, surreale, bianco, immenso, che si staglia contro un cielo vuoto, libero da qualunque altra struttura, da qualunque distrazione per la mente.
Il Taj Mahal.
Quante volte l’ho visto in televisione o in fotografia, ma niente può reggere il confronto con la realtà. Ogni più piccola parte della costruzione, così come il giardino e i palazzi più piccoli che lo contornano, sono delle vere opere d’arte, tutto è curato nei minimi particolari. Tutto è perfettamente eseguito, nulla è lasciato al caso.
E anche qui, come a Varanasi, non posso fare a meno di ripetermi che è valsa la pena non solo fare questo viaggio, ma anche aver fatto tutti i passi della mia vita, per arrivare qui, in questo momento, e avere la possibilità di stare al cospetto di qualcosa di tanto meraviglioso da togliere il fiato.
E anche qui, come a Varanasi, non posso fare a meno di ripetermi che è valsa la pena non solo fare questo viaggio, ma anche aver fatto tutti i passi della mia vita, per arrivare qui, in questo momento, e avere la possibilità di stare al cospetto di qualcosa di tanto meraviglioso da togliere il fiato.
Ma è già tempo di andare altrove. Torniamo a Delhi per fare il giro della città vecchia, con i suoi mercati e le sue strade piene di spezie e colori.
Ecco, questa è parte della storia, pillole di 12 giorni in un’India raccontabile perché come tutte le cose che si vedono, che si toccano, che si annusano, esistono parole per descriverla, per renderne più o meno l’idea.
Ma c’è un’altra parte della storia, qualcosa che non è tangibile e allora diventa difficile dire cosa sia avvenuto.
Io sono una viaggiatrice, mi muovo spesso in Asia e da sola, credevo quindi di essere preparata. Inoltre, per la prima volta per me, questo era un viaggio organizzato tramite un Tour Operator locale. <<Facile>>, mi sono detta, <<Ci sarà qualcuno una volta tanto che si occuperà di tutto>>, e così è stato, con un’efficienza, una gentilezza, una premura che di meglio non avrei potuto sperare.
Eppure, l'India non è stata facile. Non è stata morbida. Non è stata una passeggiata rilassante.
Perché l’India ti sa toccare in parti così nascoste dentro di te, che non sapevi di avere, e le porta fuori per costringerti a guardare, per fartele vedere. Il contatto continuo con un’umanità così presente, così ingombrante, fatta di eccessi, da una grande ricchezza ad una straziante povertà. Fatta di moderno e di antico, di profano e di sacro.
E tutto ti viene sbattuto in faccia con violenza, senza chiederti il permesso, senza annunciarsi, senza la pretesa di spiegarsi.
Non puoi fare altro che accettare, che smetterla ad un certo punto di fare paragoni con qualcosa che conosci, perché capisci che niente di quello che vedi può essere chiuso in scatole etichettate.
Tu quello che senti ora, non lo conosci perché non lo hai mai provato.
E allora le tante domande lasciano spazio al silenzio e allo stupore. Alle volte al nervoso, altre quasi alla paura.
Alla paura per una terra così poco mascherata, che non risponde alle regole sociali alle quali sei abituata e quasi non sai come comportarti, come una bambina alla prima gita con la scuola.
Alla paura per una terra così poco mascherata, che non risponde alle regole sociali alle quali sei abituata e quasi non sai come comportarti, come una bambina alla prima gita con la scuola.
Perché l’India è questo che fa, prende tutte le tue belle regole costruite, che ti fanno sentire al sicuro, e te le distrugge. E ti insegna che la vita non è una rigida struttura, ma un’avventura che va vissuta. Ma ti chiede anche, quelle belle regole dietro alle quali ti nascondevi e che lei ha gettato via, di sostituirle con la fiducia.
E tu te ne stai lì, a passare dal tuo albergo pulito, a strade sporche e rotte, da persone malate e povere, a uomini in doppio petto, da palazzi bellissimi e sfarzosi, a capanne che si reggono a stento. E non sai più niente, non sai dove guardare.
Ma poi, ecco che in ogni istante, ti arriva quello che dell’India è veramente l’aspetto più importante.
Il cuore delle persone.
L’anima delle persone.
Gli occhi delle persone.
Te ne stai li con tutti i tuoi dubbi occidentali, e poi inevitabilmente il tuo sguardo incrocia lo sguardo di un indiano. E può essere quello della tua guida, del cameriere, dell’uomo d’affari, o del povero che incontri per strada e che fai fatica a guardare.
E in quegli occhi incontri qualcosa di nuovo.
Non hai mai visto nessuno con occhi così, in nessuna parte del mondo e subito, cos’abbia di diverso quello sguardo, non te lo sai spiegare, non hai niente nella tua memoria a cui poterlo paragonare.
Poi capisci:
è uno sguardo che ride.
È uno sguardo pieno di verità, senza maschere, senza ipocrisia.
Le persone Indiane sorridono veramente, non perché devono, e lo fanno anche quando non sorridono con la bocca, perché è un sorriso, un’accoglienza che nasce da dentro.
Ecco cosa vedi negli occhi che incroci in india, vedi la vita che si muove, vedi il Gange con tutti i suoi umori e i suoi momenti, vedi i sari colorati, vedi le spezie dei mercati, vedi le mucche che camminano per strada come da noi fanno i cuccioli di casa, vedi ogni attimo della loro storia, ogni goccia della sacralità che impregna ogni gesto.
Tutto lì, che danza in quegli occhi che adesso ti guardano senza chiedere, senza giudicare. Così impari che in ognuno di quegli sguardi che hai incrociato da quando sei arrivata, l’ingrediente a cui non sapevi dare un nome e che li accomuna tutti, è:
l’amore.
Non so se la mia anima grazie a questo viaggio uscirà dalla ruota del samsara, la ruota del karma e delle reincarnazioni e se mi avessero chiesto di tornare, appena rientrata a casa, forse avrei detto che non me la sentivo. A distanza di qualche ora, di qualche giorno però, ho dovuto constatare che non sono più la stessa persona.
Chi pensa all'India e alle centinaia di persone che da sempre vanno lì per trovare sé stesse, immagina probabilmente che si vada a passare del tempo nei luoghi sacri, oppure in ashram di yoga o meditazione e forse lo pensavo anch'io. Ma in India la spiritualità è così forte, così autentica, che non hai bisogno di andarla a cercare, perché è lei che ti scova e ti entra anche nei punti più nascosti e bui, tenuti lontani dal cuore. Ma lei li sa trovare e te li sa pulire e te li lascia amare.
E quando rientri nella realtà che conoscevi, tutto ti sembra diverso, come un vestito che non ha più la tua taglia, perché di tante cose inutili di cui ti eri riempita per non sentire il vuoto, L’india ti ha saputo spogliare.
E allora se me lo chiedessero ora, se mi piacerebbe tornare in India, non potrei fare altro che dire che non vedo l’ora di andare.
Perché c’è ancora molta India da vedere.
C’è ancora molto di me stessa, da conoscere e scoprire.
Ma soprattutto, ci sono altri pezzi di maschera da lasciare andare.
Era un viaggio organizzato, una passeggiata, mi dicevo. Ancora non sapevo quanto l’India mi avrebbe cambiata.
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